Ieri la decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha confermato ieri l’assenza di responsabilità dell’istruttrice di equitazione che era stata rinviata a giudizio per il decesso – arresto cardiaco –  di una giovane allieva, colpita al petto dal calcio di un cavallo nel giugno 2005 presso il Circolo Turismo Equestre di Santerno. Il giorno della tragedia nove allievi stavano facendo una passeggiata nelle stradine di campagna; il cavallo sul quale era in sella la ragazza inciampò, sporgendosi in avanti. L’animale che lo precedeva scalciò, colpendo la giovane.

L’istruttrice fu accusata di non aver correttamente disposto gli allievi, di non aver fatto mantenere la corretta distanza tra un cavallo e l’altro e di non aver fatto indossare idonei dispositivi di protezione, quali il corpetto o “guscio protettivo”.

Già in primo grado emerse però che l’istruttrice aveva correttamente svolto le sue funzioni, spiegando l’importanza di mantenere le corrette distanze e vigilando affinchè le stesse fossero garantite, nonchè facendo indossare agli allievi il caschetto regolamentare. Emerse anche che il regolamento della Federazione Italiana Sport Equestri non prevedeva l’obbligo di utilizzo del corpetto protettivo, se non limitatamente ad alcune gare di equitazione, come la prova di “cross-country”.

L’imputata fu quindi assolta perché il fatto non costituisce reato, con sentenza confermata dalla Corte d’Appello di Bolgona.

 

A seguito di impugnazione della parte civile, si è ieri svolta l’ultima fase del processo presso la Corte di Cassazione, dove la discussione si è incentrata su due concetti giuridici: se l’attività di equitazione debba considerarsi come attività pericolosa e se l’intensità delle conseguenti misure cautelari debba ricomprendere anche l’adozione di dispositivi di protezione non previsti come obbligatori dall’ordinamento sportivo.

Dall’esito dell’udienza si può dedurre che la Corte ha accolto l’impostazione difensiva prospettata dall’avv. Gianluca Dradi –che tutelava il responsabile civile, cioè la compagnia di assicurazione dell’imputata- secondo cui la pericolosità non va valutata in astratto (cioè per tipologia di sport), ma vanno considerate le concrete modalità di svolgimento: nel caso specifico, una semplice passeggiata a cavallo su percorso abituale, privo di particolari insidie, con cavalli mansueti, non presentava le caratteristiche per qualificarla come pericolosa, anche se svolta fuori dal maneggio.

 

In secondo luogo, che a qualunque attività sportiva si applica l’istituto del “rischio consentito” con la conseguente prescrizione di regole cautelari meno rigide, tali da non paralizzare lo sport che l’ordinamento autorizza e promuove. Con la conseguenza che chi pratica uno sport accetta il rischio di esporsi a quei fatti lesivi che sono normalmente connaturati alla disciplina praticata, mentre chi organizza tale attività dovrà adottare le cautele utili a contenere il rischio nei limiti confacenti alla specifica disciplina sportiva, come ricavabile dai regolamenti di settore, senza che possa considerarsi esigibile un più intenso obbligo di protezione.